Una pericolosa spinta in alto – Osvaldo Negra

I laghi glaciali sono affascinanti, ma anche un segnale importante del cambiamento climatico in atto nel nostro pianeta; sono come cicatrici lasciate dai ghiacciai che si ritirano, testimoni del passato.

A cura di Osvaldo Negra, Zoologo e Mediatore Scientifico MUSE

Con le grandi corna arcuate percorse da vistosi rilievi trasversali (prerogativa dei soli maschi adulti, mentre le femmine hanno più modeste corna di aspetto caprino) e l’aspetto massiccio ma agile (che lascia presupporre una grande abilità di movimento in ambienti dirupati), lo stambecco delle Alpi occupa da tempo immemorabile, nell’immaginario collettivo, una postazione di rilevo e gode di grande valenza simbolica che ne fa un’icona vivente degli ambienti d’alta quota.

In realtà, attorno a 100.000 anni fa, all’inizio dell’ultima glaciazione, questa grande capra selvatica era presente su gran parte dei rilievi rocciosi d’Europa anche a quote basse, ma, in seguito, la pressione venatoria dei cacciatori paleolitici lo ha confinato in luoghi ad altitudini via via più elevate e sempre meno accessibili. Fino al XV secolo era comunque presente lungo tutto la catena alpina; lo sviluppo delle armi da fuoco segnò però ben presto l’inizio della fine, cosicché, dopo quattro secoli di sterminio attivo dovuto principalmente alla caccia intensiva, all’inizio del XIX secolo sopravvivevano solo da 50 a 100 esemplari nel massiccio del Gran Paradiso (in Valle d’Aosta), tutelati grazie alla protezione concessa nel 1956 dalla famiglia reale dei Savoia (che si arrogava però il diritto di abbatterli…).

Tutte figlie di quell’originario nucleo residuo, le attuali popolazioni di stambecchi presenti sull’Arco Alpino sono oggi generalmente limitate alle zone montane al di sopra del limite della vegetazione arborea (tra i 1800 e i 3300 m di altitudine) e sono il risultato sia di trasferimenti di esemplari su nuovi rilievi, sia di ricolonizzazione spontanee (le reintroduzioni sono iniziate alla fine del XIX secolo nelle Alpi Svizzere, mentre in Italia sono state significative solo negli ultimi 50 anni). Anche se la distribuzione è ancora discontinua, si stimano in oltre 50.000 gli stambecchi attualmente presenti nei paesi alpini e la specie, almeno in termini numerici, sembra complessivamente piuttosto “al sicuro” (Least Concern per la IUCN – International Union for Conservation of Nature)

Sul futuro dello stambecco alpino non mancano però le ombre, e una particolarmente minacciosa (perché complessa da definire e gestire), deriva proprio da quel global warming che sta esercitando una profonda influenza alterante sugli ecosistemi montani, in particolare su montagne antropizzate come le Alpi: con l’accelerazione dei cambiamenti climatici, in particolare nella forma dell’aumento delle temperature e della fusione dei ghiacciai, la nicchia ecologica di questa specie sta infatti subendo trasformazioni significative.

Il ritiro glaciale e la riduzione del manto nevoso comportano una diminuzione nella disponibilità di habitat adatti ad alta quota: gli stambecchi, legati a specifiche condizioni ambientali e di temperatura, sono costretti a spostarsi ad altitudini più elevate, dove il territorio disponibile è inevitabilmente più limitato per un fenomeno noto come vertical range compression (via via che si sale lungo le pareti di un cono, lo spazio a disposizione diminuisce…). Ciò può accentuare la competizione (tra gli individui per l’accesso alle risorse) e, localmente, portare a un aumento della densità di popolazione, che acuisce le situazioni di stress e rende più probabile la trasmissione di malattie.

I cambiamenti indotti dal clima stanno alterando anche distribuzione e fenologia della vegetazione alpina: le temperature più calde prolungano la stagione di crescita, spostando le comunità vegetali verso l’alto. Sebbene possa aumentare temporaneamente la disponibilità di foraggio in alcune zone, il warming favorisce anche l’ingresso e l’invasione dei pascoli in quota da parte di specie legnose e di erbivori generalisti (come il cervo), aumentando la competizione inter-specifica e comportando talvolta anche un disallineamento delle prime fasi di crescita delle piante con le esigenze alimentari degli stambecchi durante il periodo critico di svezzamento dei capretti.

Fisiologicamente adattati ai climi freddi, gli stambecchi possono inoltre andare incontro, con l’aumento delle temperature, a un cosiddetto “stress termico”, che li porta a modificare il loro time budget e l’uso del territorio: per non surriscaldarsi, tendono a ridurre il foraggiamento nelle ore centrali del giorno e a spostare l’attività trofica nelle ore più fresche della giornata (primo mattino o sera) o a quote più elevate o ambienti più ombrosi, ma queste “deviazioni di comportamento” possono causare squilibri o deficit nell’assunzione del cibo.

Anche l’approvvigionamento e il bilancio idrico possono venire in qualche modo coinvolti: nella misura in cui i ghiacciai fungono da serbatoi naturali che regolano la quantità di acqua dolce disponibile in alta montagna (e non solo), la loro riduzione o scomparsa influiscono negativamente sulla presenza d’acqua negli ecosistemi a valle, riducendo produzione di foraggio e disponibilità di abbeverate, da cui gli stambecchi dipendono, in particolare durante i mesi estivi secchi.

Non si possono infine escludere degli effetti del riscaldamento globale sulla genetica di popolazione di queste “capre delle vette”: l’aumento di temperatura media potrebbe frammentare ulteriormente le popolazioni, poiché alcuni gruppi rimarrebbero isolati su “isole” alpine sempre più piccole. Combinato con una diversità genetica storicamente ridotta a causa di passati “colli di bottiglia”, il fenomeno potrebbe rendere le popolazioni di stambecchi geneticamente più uniformi, quindi più vulnerabili alla depressione da consanguineità e con minor potenziale di adattamento.

Resistente ma vulnerabile, lo stambecco sembra dunque di fronte a una scelta forzata già intrapresa in passato, ma al presente più subdola e irreversibile: salire di quota per prendere le distanze, un tempo dal predatore umano, oggi da condizioni non più favorevoli, ma quest’ascesa non lo sta portando verso il baratro della trappola sommitale?